
Giuseppe Mazza
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Giornata dedicata alle Orchidee
Giuseppe Mazza ha risposto a baffo nella discussione Il regno delle piante
Mi pare la MILITARIS ... giusto ? Nidus avis non l'avevo mai vista ... -
Belle foto Cinzia. Grandi come sono mi escono un po' dallo schermo, ma sono utili alla determinazione, e guardandole ho fatto un piacevole ripasso. In questi ultimi tempi sono presissimo dalla preparazione di 12 maquettes per 4 francobolli ... e poi fotografo rose ... ho in mente un libro. Ciao a tutti.
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Violette a 700 m a San Dalmazzo di Tenda
Giuseppe Mazza ha risposto a Giuseppe Mazza nella discussione Il regno delle piante
Grazie Cinzia e grazie Alessandro. In effetti le viole sono un campo minato ... sulla prima, comunissima, non avevo molti dubbi ... e per l' hirta, senza stoloni e con sperone violaceo, l'aiuto di Alessandro è stato determinante. Consiglio a tutti la tecnica delle " fotocopie " ... richiede solo pochi secondi ed è molto utile per la determinazione ... Grazie ancora. -
Anemone trifolia da Vallombrosa.
Giuseppe Mazza ha risposto a Enzo nella discussione Il regno delle piante
Ciao Enzo. Belle foto di un bianco cristallino ... -
Violette a 700 m a San Dalmazzo di Tenda
Giuseppe Mazza ha pubblicato una discussione in Il regno delle piante
Chi le conosce ? Sono simili ma diverse. Guardate il colore dello sperone e la forma delle foglie. Grazie. Ciao. -
Magnolia liliflora ... o un suo ibrido ... cioè Magnolia x soulangeana ... che nasce dal matrimonio con Magnolia denudata e presenta molte forme orticole fra cui la comune " Nigra ".
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Complimenti per gli ellebori e il racconto .
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Con questo oggi inauguro la mia pagina sugli ofidi http://www.photomazza.com/spip/article.php3?id_article=183 In una foresta del Kenia ... molti anni fa'. E' bello e simpatico ... ma un po' pericoloso ... Molti cari saluti a tutti. Giuseppe Mazza http://www.photomazza.com/
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Ex bosco in Namibia
Giuseppe Mazza ha risposto a Giuseppe Mazza nella discussione Il regno delle piante
La foto è qui in fondo http://www.photomazza.com/spip/article.php3?id_article=112 Considera che la crescita è lentissima e per avere un esemplare come quello a sinistra, con le foglie non ancora sfilacciate, occorrono oltre 100 anni ... Le piante ora non sono più in casa ma nelle serre di Marnier Lapostolle ( quello del liquore ) a Saint Jean Cap Ferrat. Ciao. -
E' vero ... e ve lo spiego ... le trovate QUI Piante che fanno le uova; sarebbe come dire una scimmia con le piume o un uccello coi denti. Eppure esistono. Le Cycas della Riviera e i Ginkgo biloba che freschi freschi di Mesozoico sfidano i tubi di scappamento di Corso Buenos Aires a Milano, ci parlano oggi, 200 milioni d'anni dopo, di quello storico momento in cui le piante inventarono l'uovo. La prima grande scoperta vegetale, 4 miliardi d'anni fa, era stata la clorofilla : una sostanza verde capace di catturare il sole per trasfor- mare l'anidride carbonica e i minerali sciolti nell'acqua in materia vivente e zuccheri. Poi un bel giorno, mentre l'ossigeno s'accumulava nell'atmosfera e il cielo, prima grigio, si tingeva d'azzurro, le alghe unicellulari, stufe di sbattere contro le rocce, ebbero la bella idea di fis- sarsi al substrato, differenziando le loro cellule. Era il primo organismo pluricellulare. In seguito vennero i muschi, coraggiosi coloni delle terre emerse, inventori delle foglie e del legno. L'usavano per le loro belle capsule igroscopiche, custodi delle spore, ma niente di più. Chi ne tirò veramente profitto furono le felci, che con la lignite costruirono i grandi alberi del Carbonifero e i canali per trasportare rapidamente in alto, fino alle foglie, l'acqua e i minerali. Era una grande conquista e da 30 m d'altezza le felci arboree potevano ben guardare con disprezzo gli umili muschi del sottobosco. "Bella forza", controbattevano loro,"la lignite l'abbiamo inventata noi, e poi chi ha conquistato la terra ferma ? Dov'eravate quando i nostri nonni, rischiando di morire disidratati, abbandonavano per ore l'oceano, sotto il sole, durante la bassa marea ?" Ma le umili origini si scordano in fretta, e le grandi felci, ondeggiando al vento le loro belle foglie, simili a piume d'uccello, non li degnavano nemmeno d'una risposta. Tanto i muschi che le felci, però, come gli anfibi, possiedono un tallone d'Achille : per riprodursi hanno bisogno dell'acqua. Le loro spore danno origine a delle curiose piantine che portano i sessi, e quando piove le cellule maschili devono raggiungere a nuoto le compagne. Arduo cimento, romantico ritorno alle alghe ed alle loro danze d'accoppiamento in mare, ma niente acqua, niente nozze. Il problema si pose drammaticamente nel Permiano, quando col ridursi delle precipitazioni gli stagni e i laghi si prosciugarono. L'inaridimento del clima costrinse molti animali come i rettili e gli uccelli a inventare l'uovo, una sorta d'oceano in miniatura protetto da un guscio, e alcune felci più evolute fecero altrettanto. Invece d'affidare le loro cellule femminili a pianticelle non più alte di un muschio alla mercè delle piogge ( nelle felci gli organi sessuali sono portati dal protallo, una piantina effimera, laminare come le alghe, di 3-4 cm al massimo per le specie più grandi ), le misero al sicuro sotto le foglie in strutture ovoidali protette da un guscio e ricche di sostanze nutritive. I principi azzurri non giungevano più a nuoto, ma volando, in eleganti sfere affidate al vento : i granuli di polline. Anche altri gruppi di piante si mossero in questa direzione, ma purtroppo la natura non è tenera con i pionieri, e di tutte queste specie d'avanguardia è rimasto ben poco. Si sono estinte, spazzate via, senza scrupoli, dalla loro stessa discendenza che portò avanti il discorso della "protezione all'infanzia" con l'invenzione del seme e del frutto. Solo il ginkgo e qualche cicadacea sono giunti immutati fino a noi. La Signora Ginkgo ( è curioso come all'origine i sessi fossero separati nelle piante e uniti negli animali, e come poi l'evoluzione abbia capovolto la cose ) si riconosce subito anche da lontano. E' uno dei rarissimi alberi dioici in cui il portamento dipende dal sesso : i maschi sono slanciati come abeti e le femmine tozze e compatte. Un tempo i ginkghi erano diffusi in tutto il mondo, ma oggi la loro area di distribuzione "naturale" pare limitata alla Cina centrale. "Naturale", fra virgolette, perchè i botanici non sono del tutto d'accordo : fin dall'antichità infatti questa misteriosa pianta fu protetta e propagata dall'uomo, apparentemente senza secondi fini. Al più si riteneva che scongiurasse gli incendi e, strana coincidenza, quando nel terremoto del 1923 le fiamme divorarono mezza Tokyo, in un quartiere quasi completamente distrutto si salvò proprio un tempio circondato da ginkghi. Una pianta che porta buono, dunque; una pianta antichissima che sopporta l'inquinamento delle città; la prima pianta protetta per se stessa. Se non fosse che i suoi estratti servono per curare una malattia un po' indecorosa, le emorroidi, le sue belle e "grafiche" foglie a ventaglio, dalle antiche nervature dicotome, potrebbero benissimo diventare il simbolo d'un movimento verde. A Milano, e in genere nelle nostre città, si vedono solo ginkghi maschi, perchè le Signore Ginkgo, come gli storni, non sono molto gradite alle amministrazioni locali. In settembre quando le loro belle "ciliege" dorate si spezzano al suolo, liberando una polpa sdrucciolevole giallo uovo, che sa per di più di burro rancido, bisogerebbe mobilitare una squadra di spazzini. E poi le Signore Ginkgo non hanno il senso della misura : non si limitano a far crescere come le piante moderne solo gli ovuli fecondati, ma come le galline, anche le uova che non sono state "onorate" dal consorte. Il Signor Ginkgo in primavera affida al vento un numero incredibile di granuli di polline. A differenza della maggior parte delle piante da fiore, che conoscendo la proverbiale efficenza dei servizi pos- tali preferiscono usare i "pony express" o i "corrieri" ( leggere "insetti" e "uccelli" ), lui non ha mai tradito il servizio pubblico. "Spedendo miliardi di colli", ripete convinto dal Giurassico,"anche la più scalcinata delle poste finirà bene per portare a destinazione i miei granuli". E così miracolosamente avviene, anche perchè la Signora Ginkgo si da da fare. Reca all'apice delle sue uova una fessurina, da cui, quando ha voglia ( e sì ! ), fa uscire una gocciolina di liquido vischioso. I granuli di polline vi si appiccicano, e allora lei ritira il liquido in una cameretta nuziale, detta, non a caso, "pollinica". Qui le sfere volanti si aprono e da ciascuna escono due spermatozoi mobili, simili ai nostri, che impiegano sei mesi per raggiungere la compagna. Nel frattempo l'uovo sarà caduto, e appena fecondato l'embrione crescerà subito rigoglioso, utilizzandone le riserve. Ed è qui la grossa differenza con le piante da seme : i semi per germinare possono attendere anche centinaia d'anni ( semi tratti da antichi erbari, si sono risvegliati dopo oltre tre secoli, e si sa con certezza che alcuni semi di loto sono germinati dopo quasi 1.000 anni ), le uova nò. Lo stesso avviene per le cicadi. La Signora Cycas revoluta, la cui lontana parentela con certe felci arboree estinte pare probabile ( aspetto analogo e foglie in crescita arrotolate all'apice ), attua anche lei la tecnica della gocciolina vischiosa. Qui le uova non sono portate da un picciolo, ma crescono sotto speciali foglie dorate, ripiegate su se stesse a formare una sorta di cavolo. Per dieci giorni, quando la Signora è feconda, queste si sollevano leggermente per lasciare entrare il polline, e poi si richiu- dono portando a maturazione, come nel Ginkgo, sia le uova fecondate che le altre. Ancora una volta, come nelle favole, sotto i cavoli nasce la vita, ed evoluzionisticamente, in questa strana struttura protettiva fogliare, nè molle, nè dura, i botanici trovano una conferma che le pigne delle conifere altro non sono che foglie strasformate. E, del resto, anche il sesso del Signor Cycas revoluta non è poi tanto diverso da una pigna. Si drizza in una struttura fusolare appuntita di 30-40 cm, e s'infiamma a tal punto d'amore ( e sì ! ) che la temperatura al suo interno sale di 10° C. Le sue squame si alzano, mostrando le sacche polliniche, e liberano per giorni al vento, poco più, poco meno, 5 miliardi di granuli di polline. Visibili ad occhio nudo gli spermatozoi ciliati di questa specie sono i più grandi della natura : misurano circa 1/3 di mm e impiegono 4 mesi per raggiungere la cellula femminile all'interno dell'uovo. Anche qui la fecondazione vera e propria avviene poi spesso al suolo. A differenza dei ginkghi, che da noi per evitare le famose piogge d'uova sono quasi tutti maschi, le Cycas revoluta che adornano i laghi lombardi e i ricchi giardini della riviera, sono prevalentemente femmine. I tronchi che giunsero nell'800 in Europa dal sud della Cina o dal Giappone, per una strana coincidenza appartenevano quasi tutti al gentil sesso, e ancora nei primi anni di questo secolo, gli istituti scientifici mettevano delle inserzioni sui giornali per trovar dei maschi. Si contavano sulle dita, ma oggi stranamente sono aumentati. Solo a Monte Carlo ne ho visti tre, e dato che da tempo nessuno importa più cicadi, perchè la propagazione avviene per polloni e agli effetti orticoli un maschio vale una femmina, non si capisce proprio da dove vengano. Si è allora avanzata l'ipotesi che, sotto stress, queste piante possano cambiar sesso. E' celebre, in merito, l'esperimento del Prof. C. J. Chamberlain, un'autorità mondiale nel settore, che avendo tagliato longitudinalmente una Cycas, si trovò poi con un esemplare maschio ed uno femmina. E un noto collezionista di cicadi della Costa Azzurra, Jean Pierre Sclavo, ha visto spuntare un cono maschio su uno strobilo femmina d' Encephalartos ferox. Le barriere fra i sessi non sono così rigide come comunemente si pensa, e gli esempi di transessualità fra le piante non sono infrequenti. Una begonia epifita africana, per esempio, se cresce al sole dà dei fiori maschi, ma se poi lo stesso ramo cade all'ombra questi sono subito rimpiazzati da dei fiori femmina. E le spore degli equiseti, per restare nelle piante primitive, possono dare protalli maschili o femminili secondo il terreno su cui cadono. Le cicadacee, così diffuse nel Mesozoico da rappresentare oltre un terzo della flora terrestre, sono oggi sparpagliate nelle aree tropicali e subtropicali con 10 generi ( un undicesimo pare sia stato scoperto in Colombia ) e circa 130 specie. Sono tutte piante dioiche che affidano il polline al vento, ma alcune specie sudafricane come l' Encephalartos villosus e l' altensteinii, hanno stretto anche un patto con gli insetti per il trasporto pollinico. Il loro partener è un curioso coleottero curcu- lionide, l' Antliarhinus zamiae. Le femmine frequentano i coni maschi, attirate, sembra, dal calore e dall'odore che emanano, e poi, infarinate a dovere, si spostano su quelli femminili per deporvi le uova. Esplorano ogni fessura dello strobilo, fecondandolo con una lunga proboscite, e quando trovano il punto adatto, si girano e sfoderano un ovopositore d'ugual taglia. Le loro larve distruggeranno molte uova, ma un cono può portarne anche 500, ed evoluzionisticamente è comunque un passo avanti rispetto l'impollinazione anemofila ( i non botanici leggano "affidata al vento" ). Forse così, milioni d'anni fa, iniziò l'avvincente storia della collaborazione fra insetti e piante. La crescita delle cicadi è lentissima : 5-10 cm all'anno per le poche specie che sopravvivono nei climi caldo-umidi ( dove la vita è facile e le specie sono molte, la concorrenza delle piante moderne le ha subito sopraffatte ), 1 cm per gli Encephalartos, e meno di 1/2 cm per quelle d'ambienti aridi. Se a ciò si aggiunge che spesso l'impollinazione è dif- ficile, perchè le piante dei due sessi sono troppo lontane fra loro, si può falcilmente capire come, fin dai tempi antichi, le attività agricole umane abbiano dato un colpo di grazia ai resti di queste piante preistoriche. I semi della Macrozamia spiralis venivano sistematicamente raccolti dagli aborigeni australiani per ricavarne una farina, e i poveri Encephalartos del Sudafrica non avevano certo una miglior sorte, perchè gli indigeni, oltre ai semi, si mangiavano anche la parte superiore dei fusti, ricchi di amido ( Encephalartos viene da EN = interno, KEPHALE = testa e ARTOS = pane ). Anche prima dei tempi moderni, l'uomo ha sempre dilapidato il suo ambiente. Una rara eccezione è offerta in Sudafrica, nel Lebowa, dalla spettacolare foresta d' Encephalartos transvenosus di Modjadji, 300 km circa a nord di Johannesburg. Qui, su una montagna sacra, custodita per secoli dalle Regine delle piogge, abbiamo oggi la più grande concetrazione di cicadi del mondo. Alcuni alberi, alti 12-13 m, superano i 1000 anni e gli ordinati sentieri dell'attuale riserva non tolgono nulla al fascino d'un tuffo nel Mesozoico. Un'altra grande specie del Natal, l' Encephalartos woodii risulta ormai estinta in natura. Si sono salvati solo due maschi adulti, guardati a vista, nel vicino orto botanico di Durban, e non essendoci più femmine, si può ben dire che è la specie arborea più rara del mondo. Con delicate operazioni chirurgiche, dai polloni dormenti che crescevono sui tronchi si sono ricavate altre 5 giovani piante d'enorme valore. Per evitare furti il direttore del Giardino le ha piantate, senza etichetta, fra delle cicadi comuni, molto simili in gioventù ( i ladri in genere non sono laureati in botanica ). A queste piantine è affidato l'avvenire della specie, ed anche se la cosa è improbabile, come è accaduto a Chamberlain, potrebbe sempre venir fuori una femmina. Nelle sue scelte evolutive la natura si lascia spesso un margine di manovra, e non chiude mai tutte le porte. Giuseppe Mazza http://www.photomazza.com/
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Ex bosco in Namibia
Giuseppe Mazza ha risposto a Giuseppe Mazza nella discussione Il regno delle piante
Non solo l'ho vista ma ho portato a Monte Carlo i semi e le piantine vanno bene ... solo che saranno belle fra 2.000 anni :biggrin: -
E' bello avere un lago accanto ...
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I fiori fuoco d'artificio
Giuseppe Mazza ha risposto a Giuseppe Mazza nella discussione Il regno delle piante
Bella foto che mostra i due momenti della pianta ... anche lui è pirotecnico :biggrin: :biggrin: -
Erano gli anni forti di Gardenia ... ora non è più la stessa rivista ...
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Con la digitalizzazione dei cactus sono un po' indietro ... ma qui trovate qualcosa http://www.photomazza.com/spip/article.php3?id_article=118 http://www.photomazza.com/spip/article.php3?id_article=73 http://www.photomazza.com/spip/article.php3?id_article=65 http://www.photomazza.com/spip/article.php3?id_article=108 Ciao :biggrin: .
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Un testo un po' insolito ... ecco il SERVIZIO .... Fiori nudi, quasi senza petali. Spregiudicati, moderni, tutto sesso, con stami e pistilli pirotecnici. Fiori novità del 2000, di moda, oltre che per il design insolito, per l'incredibile durata in vaso, una volta recisi. I Leucospermum, simili in boccio a puntaspilli, e poi a porcospini, ci giungono già dal Sudafrica, tramite l'Olanda, impacchettati come garofani per raffinate composizioni floreali; e all'Istituto Nazionale della Ricerca Agronomica d'Antibes, in Francia, si provano sui vari terreni all'aria aperta, molte specie di Protee, Grevillee, Banksie, e Callistemon. E' possibile trovarle, anche in Italia, nei cataloghi dei vivaisti, e avranno certamente un avvenire mediterraneo. Ma da dove sbucano, all'improvviso, questi fiori mai visti? Sono "fossili viventi", sopravvissuti come l'ornitorinco e canguri in terre lontane, o al contrario dei fiori modernissimi ? Per capirlo, vediamo un po' da vicino cosa sono i fiori. Anche se spesso vengono presi a simbolo della verginità e della purezza, a parlar chiaro sono gli organi sessuali delle piante. Rivelazione di per sé un po' scioccante, che ci fa vedere all'improvviso un bel mazzo di fiori come un fascio di membri di toro o vulve di gatta; ma volerlo o no, i variopinti sessi del mondo verde ci affascinano, e le loro complesse strategie amorose ci coinvolgono. Da millenni, infatti, le piante, pur accoppiandosi fra loro, fanno l'amore con gli animali. Un tempo abbandonavano gli spermatozoi all'acqua e al vento, ma oggi, tolte le specie primitive o arcaiche, come i muschi, le felci e le conifere, affidano quasi tutte la loro discendenza agli insetti e agli uccelli, con un trasporto e un coinvolgimento tale, che non è poi tanto azzardato definire amoroso. Li attirano con coloratissime parate nuziali; li seducono con la bellezza e il profumo; li nutrono col nettare; offrono loro un rifugio per la notte e le intemperie; e poi, come nei migliori ménage, li sfruttano, trasformandoli in "postini", più o meno consapevoli, per portare a destinazione il loro polline. L' "ufficio postale", il luogo d'incontro, è il fiore : una geniale invenzione con cui, circa 100 milioni d'anni fa, nelle foreste pluviali, le piante si sono, in un certo senso, animalizzate. Per conquistar qualcuno, è buona tattica mostrar subito gli stessi gusti, lo stesso punto di vista; e per sedurre gli uccelli, che amano notoriamente i colori, nel Cretacico le piante inventarono una struttura variopinta, il fiore, del tutto estranea al loro mondo verde. Com'era accaduto nella notte dei tempi, con la nascita dei primi animali, generati da una pianta che aveva perso la capacità di fare la fotosintesi, così anche la seconda animalizzazione delle piante avviene con una "perdita". Alcune foglie, cioè, rinunciano alla clorofilla, e si colorano diventando petali. Una metamorfosi che vediamo ancora oggi, in atto, in specie "poco decise", come le Buganvillee, la Stella di Natale o le Bromeliacee, dalle foglie laccate di rosso che sfumano, più giù, nel verde. Fiori o foglie ? Che importa. A noi piacciono, e piacquero 100 milioni d'anni fa agli uccelli. Tinte sgargianti, forme a cresta che ne imitavano il piumaggio, pressanti inviti a pantagrueliche scorpacciate di nettare con insalatine di petali : i fiori facevano di tutto per sedurli, e gli uccelli si ingozzavano felici. Avevano, è vero, la grazia di un elefante in un negozio di porcellane, ma il polline giungeva preciso a destinazione, anche nella foreste più fitte, dove il vento non era certo di casa. Con qualche astuzia per proteggere i loro organi genitali e la discendenza dalla voracità di questi partner ingombranti, le piante da fiore prosperavano, e crebbero a tal punto di numero che ben presto la foresta cominciò ad andar stretta. Le specie più intraprendenti si mossero allora alla conquista delle regioni temperate; ma dove d'inverno la vita vegetativa ha una pausa, dove non c'è abbondanza di frutti tutto l'anno, gli uccelli scarseggiano. Per un attimo i fiori si guardarono intorno smarriti, e poi, visto che nel cielo ronzavano gli insetti, con un'abile riconversione adattarono i loro petali ai gusti e ai colori della nuova clientela. Il bianco, il blu, e il giallo, con riflessi e disegni visibili all'ultravioletto; macchie e linee convergenti per segnalare la strada del nettare; supporti e poggia-piedi fatti apposta per l'atterraggio dell'ospite; ma anche complessi bilancieri, petali che si chiudono come trappole, e arnesi da sadomasochismo, per impollinare al meglio i malcapitati. In breve misero su dei raffinati "ristorantini" per gente di classe, talora un po' equivoci, ma quasi sempre esclusivi di un certo gruppo d'insetti o di una specie. Fu un successone, perché gli insetti mangiano meno, rompono meno degli uccelli, e si possono plagiare più facilmente. Un cervello piccolo, ben programmato, con un margine d'imprevidibilità quasi nullo; amanti infaticabili, forse un po' stupidi, ma perfetti, molto, molto precisi. Per milioni d'anni la parola d'ordine dei fiori fu "miniaturizzazione", e le corolle da gigantesche si fecero piccole, piccole. Tanto piccole che poi spesso, né gli uccelli, né le api, le vedevano più. Molte piante ebbero allora dei ripensamenti. I fiori dei climi freddi, dove la stagione vegetativa è cortissima e in primavera gli insetti sono quasi inesistenti, tornarono a produrre polline in quantità, affidandolo di nuovo al vento, prima dello spuntar delle foglie. E' il caso della betulla, con ben 5 milioni di granuli a gattino ( così i botanici chiamano le "biscioline" di fiori che in marzo-aprile pendono dai rami ), o del nocciolo, con 500 milioni di granuli per albero, una "gioia" per chi soffre d'allergie. E quelle dei climi temperati, dato che una volta fatta una certa scelta evolutiva non è facile tornare indietro, raggrupparono le loro piccole corolle in strutture, simili a grandi fiori, che i botanici chiamano infiore- scenze. E' il caso, da noi, delle margherite, e nell'emisfero sud di molte Proteacee e Mirtacee, spinte spesso a questo passo anche dall'abbondanza di piccoli uccelli mellifagi. Uno dei tanti ritorni ciclici della natura; ma un ritorno con un'ottica diversa, come in montagna, da un tornante più alto. Fiori da uccelli con l'esperienza dei fiori da insetti, col gusto del design e del dettaglio; e fiori da insetti più raffinati, dai contorni più strani. Così nascono i "fiori fuochi d'artificio", per strade spesso diverse, per sedurre amanti spesso diversi, ma con aspetto analogo, quello di una piccola esplosione pirotecnica. I fiori, come noto, anche se piccoli, raggruppano di solito in un' unica struttura gli elementi maschili ( stami con antere cariche di polline ) e quelli femminili ( ovario con stilo e stigma ). Intorno i petali, liberi o saldati, formano la corolla, l'apparato pubblicitario cui spetta il compito d'attirare gli impollinatori. Ma quando questa manca o, come nel nostro caso, è insignificante, per farsi notare non resta che produrre del buon nettare, ed evidenziare al massimo, ingrandendolo, quel po' che rimane, cioè il sesso. Le "ragazze" dei fiori sono in genere tradizionaliste e riservate : tengono gli ovuli chiusi in casa, nel ventre del fiore, e aspettano il polline, lo sposo, con una sorta d' "antenna televisiva", lo stilo, che sale su su dall'ovario, e si apre in alto, sul "tetto", con dei grandi baffi o una sfera. Ma le femmine dei Leucospermum in Sudafrica, e delle Grevillea in Australia, vista l'inefficienza dei maschi, e che con uno straccetto di corolla per vestito erano già quasi nude, decisero di mettersi in mostra. "Basta con i pudori", si son dette, "basta di stare nascoste, basta d'attendere", ed hanno ingigantito i loro stili, colorandoli di giallo, rosso o arancio, con vistose capocchie, gli stigmi, che sottolineano con tinte in contrasto, spesso vistose, il punto più intimo della loro femminilità. Quando il fiore è ancora in boccio, crescono oltre misura; spingono sui poveri maschi, piccoli, appiccicati ai quattro lobi del calicetto, si piegano ad arco e li deflorano. Li lacerano, rubando loro il polline, e dopo averli umiliati li abbandonano mogi mogi in basso, drizzandosi orgogliose come stami, cariche di polline. Autofecondazione ? Incesto ? No, perché le nostre "femministe", cariche di polline fraterno, per il momento non sono ricettive : prendono la "pillola", e solo dopo aver disperso il polline, infarinando a dovere uccelli e insetti, tornano a sognare, e ad attendere, come tutte le ragazze del mondo dei fiori, il loro Principe azzurro. Lo stigma si fa allora appiccicoso, ricettivo, e il polline proveniente da altre infiorescenze raggiunge l'ovario con un patrimonio genetico diverso. La natura ha orrore della consanguineità, ed anche se per motivi tecnici raggruppa spesso i due sessi nello stesso fiore, fa poi di tutto per evitarla. E i maschi dei piccoli fiori ? Non sono certo rimasti sempre con le mani in mano. Nelle Melaleuca e i Callistemon, delle mirtacee australiane, hanno creato spesso delle strutture non meno esplosive. Qui le traiettorie pirotecniche sono tracciate dagli stami, anche loro ingrossati e coloratissimi, in autentiche associazioni maschiliste, in cui gli stili affogano in un mare d'antere gialle. E non mancano nemmeno i "solisti", grandi fiori singoli larghi anche 8 cm, come l' Eucalyptus macrocarpa, la "Rosa dell'ovest". Ci sarebbe di che andar fieri, per aver ottenuto, con un sol fiore, l'effetto di centinaia di femministe, ma i maschi degli eucalipti non si accontentano, e si mettono spesso, anche loro, uno accanto all'altro in infiorescenze spettacolari. Nuvole di stami rossi o gialli, un vero trionfo maschilista, come accade con le mimose, che del tutto ignare di dover rappresentare in Italia il movimento delle donne, sono in realtà dei fiori tipicamente fallocratici. Non mancano, ma sono rare, infiorescenze in cui l'effetto pirotecnico è affidato alle corolle, lunghe e sottili. E' il caso, in Sudafrica, di protee come l' aurea, e in Australia di molte Banksie, come la candolleana o la praemorsa, quando, come nella coccinea o la integrifolia, le femministe non si rifanno vive, con i loro stili e la "danza degli archetti". E' il caso di proteacee strane come gli Isopogon o lo Stenocarpus sinuatus, l'incredibile "Albero dalle ruote di fuoco", dalle vistose corolle scarlatte disposte in gioventù come i raggi d'una ruota. Le composite, generalmente piatte, non ci offrono molti fuochi d'artificio, ma sempre in Australia, la Waitzia podolepis, stupisce per l'incredibile forma eruttiva. Per sedurre gli insetti in una terra d'esplosioni pirotecniche, non ha potuto, anche lei, fare a meno del design della concorrenza. Giuseppe Mazza http://www.photomazza.com/
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Ex bosco in Namibia
Giuseppe Mazza ha risposto a Giuseppe Mazza nella discussione Il regno delle piante
Matteo ... questo è il punto ... purtoppo le riviste in questione in Italia oggi sono estinte ... ma scrivo ancora su ANNA e DONNA MODERNA ... -
Ex bosco in Namibia
Giuseppe Mazza ha risposto a Giuseppe Mazza nella discussione Il regno delle piante
Certo che i testi sono miei. Ne ho scritti 400 ... un po' alla volta ve li metto. -
Matteo ... ho pochissimo tempo ... e il link è la cosa più rapida. Ecco il testo del KOALA : "Attenta, forse è un serpente ! ", grido a Roberta, la studentessa in biologia che mi accompagna nel viaggio. Afferro l'Hasselblad mentre qualcosa si muove ai piedi di un gigantesco "Blackboy" ( Xanthorrhoea sp. ), la "pianta erba" centenaria che ha attratto la nostra attenzione per le candide infiorescenze cilindriche, lunghe due metri. Siamo in Australia, ai margini del Lamington National Park, non lontano da Brisbane, nel Queensland, in una foresta d'eucalipti spezzata dai lucidi tornanti di una strada asfaltata che sale fin oltre i 1000 m, verso il monte Tamborine. Sette anni fa era poco più di una mulattiera, e portava, fra mille sobbalzi, a un piccolo rifugio nella foresta pluviale. Oggi, a tratti, sembra un'autostrada, e il rifugio è diventato un albergo quasi snob : prezzi quadruplicati, camere prenotate con mesi d'anticipo, pullman con scritte di giri organizzati, e frettolosi turisti d'oltre oceano che giungono di continuo dalla capitale. Al passaggio dell'ennesimo convoglio rombante, il nostro "serpente" ha un sussulto. Si vede del pelo e pensiamo subito a un coniglio, che però, stranamente, non scappa. Roberta mi fa notare delle macchie di sangue sull'erba, e più in là, al suolo, troviamo un koala ( Phascolarctos cinereus ) morente. E' cieco, ma può ancora sentirci : solleva a stento il capo, come per guardarci, e spalanca un'occhio sanguinante da far paura. L'altro, da tempo, è ormai incollato dal pus. Si tratta di Chlamydia, una malattia epidemica che attacca anche l'uomo. Sarebbe pietoso ucciderlo, ma non ci sentiamo di farlo, e dopo aver lasciato sulla strada un punto di riferimento, cerchiamo la più vicina stazione dei rangers. E' proprio davanti al nostro albergo. Un grande parcheggio, rubato alla foresta, fronteggia la nuova ala del lodge, mentre numerose cameriere, in divisa, rimpinzano i ricchi turisti della terza età. La foresta, per fortuna, sembra la stessa, anche se gli incerti sentieri di un tempo vantano gradini, piazzette per barbecue e patetiche panchine da "giardini pubblici", difese eroicamente dagli attacchi dell'umidità e delle piante. Eleganti cartelli, da far invidia agli svizzeri, indicano le distanze e le gite d'obbligo : "Laghetto blu", "Cascate Morans", "Rocca dei pitoni" e persino "Giro dei pensionati". Finalmente troviamo un ranger : "tacchina" con le turiste americane che offrono dolci ai pappagalli cremisi ( Platycercus elegans ) della foresta, e sorseggia, fra i rutti mal repressi d'un generoso pasto, una tazza di tè. "Koala morente di Chlamydia lungo la strada ?", ripete, "Si, si, sappiamo, ce ne sono molti", e consiglia di correre a mangiare perchè sono quasi le due e rischiamo di perdere il turno. "Verrò poi per farmi spiegare il posto", conclude rassicurandoci, ma non lo vedremo più. Roberta non parla, stenta come me a mandar giù i bocconi. Scaricati i bagagli, torniamo dal koala, che nel frattempo è morto. L'occhio sanguinante si è chiuso per sempre, ed una macchia di pus bianco, fra i peli, segna la fine della malattia. Il giorno dopo siamo all'università di Brisbane, dal Prof. Frank Carrick, responsabile di un vasto programma di ricerche in merito. Il nostro racconto non lo stupisce. "Il degrado dell'ambiente", ci spiega, "è la causa principale della Chlamydia. Tutte le epidemie che hanno colpito i koala nel 1890, 1920 e 1930 sono strettamente correlate all' "habitat alienation" : case, strade, industrie e insediamenti umani. I koala sono animali molto sensibili che sopportano abbastanza bene gli "stress acuti", un cane che abbaia sotto il loro albero, per esempio, ma non gli "stress cronici", come il via vai, i gas di scarico e il baccano del turismo di massa". "Ma allora", lo interrompo, "come fanno a posare in braccio ai turisti per le classiche foto ricordo" ? "Quelli", continua, "sono dei koala a parte, nati in cattività da generazioni, e abituati, fin dalla nascita, alla presenza dell'uomo. Considerano ormai normali i maneggiamenti e non si stressano più. Ma in natura, dove i koala sono spesso dei portatori sani, in un continuo, difficile equilibrio con numerosi parassiti, basta un niente e muoiono". "Ma esattamente", chiedo, "che cos'è la Chlamydia" ? "Non è un virus, come molti credono, ma un batterio piccolissimo che, come i virus, passa la maggior parte della propria vita nelle cellule dell'ospite. Esistono poi due specie : la Chlamydia trachomatis e la Chlamydia psittaci. La prima, tipica dell'uomo, presenta almeno una dozzina d'immunotipi, provoca artriti, congiuntiviti ed è la pricipale causa di sterilità fra le donne. Almeno 500 milioni di persone ne sono affette, e soprattutto in Asia ed Africa è all'origine di numerose cecità ( Trachoma ). Gli animali sono portatori della Chlamydia psittaci che può eccezionalmente contagiare anche l'uomo". "Si tratta della famosa psittacosi", commento pensando alla malattia polmonare che si prende dai pappagalli, dai piccioni e in genere dagli uccelli tenuti in cattive condizioni igieniche. "Certo, ma attacca anche i bovini e le pecore, provocando aborti e gravi artriti. Almeno due varietà di psittaci colpiscono poi gli occhi e l'apparato urogenitale dei koala". "E possono infettare anche l'uomo" ? "Teoricamente si, ma non esistono in pratica casi riportati. Io maneggio di continuo animali malati e non ho mai preso nulla. Sono parassiti estremamente specifici, tanto che la forma che rende ciechi i koala non attacca le loro vie genitali, e quella che li rende sterili non colpisce gli occhi". Mi mostra una cartina, con la diffusione del morbo nei vari stati australiani. In pratica non esistono popolazioni indenni e il dilagare della sterilità è impressionante. Ad un esame radiografico su 237 femmine adulte, il 43 % risultano sterili, con punte, in alcune zone, del 75 % e del 100 %. Un dato allarmante se si pensa all'esiguità delle popolazioni attuali, dopo le stragi operate dall'uomo nei primi decenni del secolo, quando sul mercato di Londra si vendevano anche due milioni di pelli di koala all'anno come "Cincillà d'Adelaide" o "Castoro d'Australia". "Ma potrebbero estinguersi ?", chiedo preoccupato, "e quanti sono, oggi, i koala esistenti" ? "Per quanto sembri incredibile", continua il Prof. Frank Carrick, "su un animale tanto popolare come il koala, il simbolo stesso dell'Australia, non si sa ancora quasi niente. Se lei mi dice che oggi in tutta l'Australia ci sono 10.000 koala, le rispondo che mi sembrano un po' pochi, ma che probabilmente ha ragione; se mi dice che sono 10.000.000, le dirò che mi sembrano troppi, ma che potrebbe anche aver ragione. Il numero, comunque, è in continuo, netto declino". "E non fate nulla" ? "Il governo ha creato un comitato di ricerca, cui partecipo, per formulare leggi utili alla sopravvivenza di questo raro, veramente unico marsupiale. Da circa otto anni stiamo compiendo seri studi sulla consistenza numerica delle varie popolazioni, sulla loro struttura sociale, i movimenti, l'alimentazione e la Chlamydia. Molte credenze del passato, come il fatto che non bevono, non si muovono mai, e si nutrono esclusivamente d'eucalipto, sono state smentite dai fatti. Si è scoperto che i giovani maschi, lungi dal passare tutta la vita su un'albero, possono percorrere anche 10-20 km. Le riserve non devono perciò essere piccole e sparpagliate, come oggi spesso avviene, ma unite e il più grandi possibili". "E il vaccino contro la Chlamydia ?", chiedo ancora, "circola voce che ci state provando". "Il Lone Pine Koala Sanctuary", continua, "sta conducendo degli esperimenti in merito, utili soprattutto per gli animali in cattività. Ma dato che questo batterio si manifesta in più modi, la strada da percorrere è lunghissima. Del resto, nonostante i milioni di dollari stanziati, non è stato ancora trovato un vaccino nemmeno per l'uomo. E poi, anche se ciò in teoria fosse possibile, sono contrario ad una vaccinazione in massa degli animali in libertà. Il meccanismo immunitario dei koala è molto complesso : mentre negli altri mammiferi gli anticorpi si formano dopo due settimane, nei Koala occorrono anche 4 mesi, e non so come reagirebbero a un vaccino. Alla fine risulterebbero poi tutti siero positivi, e non potremmo più capire, dai prelievi di sangue, quali popolazioni sono infette e quali no. Meglio percorrere, per il momento, la strada degli antibiotici. Nell'uomo bastano in genere 3-4 settimane di vibramicina ( doxycycline ), nei koala usiamo delle tetracicline come la terramycina ( oxytetracycline ). In un primo tempo si pensava che gli antibiotici, distruggendo i batteri simbionti che disintegrano la cellulosa, portassero in pratica i koala a morire di fame. Poi si è scoperto che a differenza dei canguri e delle pecore, solo il 9% della loro dieta è basato sulla cellulosa : attingono direttamente l'energia dai carboidrati, dalle proteine e dai lipidi presenti nelle foglie. I batteri simbionti, se mai, hanno importanti funzioni atossiche, e sembra neutralizzino molti veleni dell'eucalipto. Ai soggetti malati, che ci portano dai vari parchi nazionali, facciamo un'innezione di antibiotici alla settimana e oltre alle solite foglie d'eucalipto diamo un'integrazione alimentare, un "supplementary food" costituito da proteine di soia e lipidi di facile digestione per bambini, secondo un'originale formula messa a punto da Tony Wood, veterinario del Lone Pine Koala Sanctuary. Almeno il 50 % si salva". Nel pomeriggio ci rechiamo in visita al Santuario, il più importante centro per la riproduzione dei koala in cattività. Nato nel 1927, si è poi arricchito d'altri animali, ed è oggi un grande parco-zoo della fauna australiana. Incontriamo prima un cane lupo, con in groppa un koala che fa urlare di gioia un gruppo di turisti giapponesi, e poi Pat Robertson, il dinamico, occupatissimo manager del Santuario. 200.000 visitatori all'anno, 85 koala adulti, con 8 generazioni domestiche alle spalle, 18 piccoli ed uno che deve "nascere" per la seconda volta. Come tutti i marsupiali, infatti, i koala vengono al mondo immaturi, dopo 25-30 giorni di gestazione. Pesano meno di 5 grammi, e guidati dall'olfatto si rifugiano per 5 mesi in una sorta d'incubatrice, una tasca con due capezzoli. Poichè si apre verso il basso, nascosta dal pelo, e il piccolo, a differenza dei canguri, entra ed esce solo per pochi giorni, è molto difficile sorprenderlo mentre fa capolino. Chiedo ugualmente l'autorizzazione ad appostarmi, e ottengo con molto scetticismo, da un keeper, la chiave della nursery. Il 19° cucciolo uscirà da un momento all'altro, ma non si sa quando. Per due giorni, appollaiato su un malfermo sgabello, in gabbia, sono la principale "attrazione" del Santuario, e aspetto, con infinita pazienza e ottimismo, il lieto evento. Ogni tanto sbuca una zampa, mentre il piccolo succhia il latte, ma poi rientra. Finalmente si presenta di testa : dorme beato con il musetto e l'occhio fuori dal marsupio. Dopo due ore di relativa immobilità la madre cambia posizione, e mentre temo d'aver perso ancora una volta l'occasione, si decide ad uscire : un "orsacchiotto" di appena 12 cm con due grandi occhi castani. Scatto una foto dopo l'altra, e mentre il pubblico si accalca gridando sulla rete, vedo nel mirino che il piccolo bacia la madre. In tutto quel "circo" consumistico, ignorando la gente e il chiasso, i due koala sono incredibilmente autentici. Io e Roberta ci guardiamo in silenzo, sappiamo che, almeno in cattività, il koala è salvo, anche se il modo meraviglioso con cui è venuto al mondo stride tristemente col contesto. Giuseppe Mazza Ciao .
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Qui vi metto il testo ... se no non lo capite ... FOSSILE VIVENTE IN NAMIBIA "Slow, slow, please", ripeto da circa 3 ore all'autista che guida gagliardamente la mia jeep, fra i sassi della Namibia, come una Rolls su un'autostrada tirata a lucido. Non è più una richiesta, ma qualcosa a metà fra una supplica e il bisogno di scaricare la coscienza, ogni sobbalzo, dai possibili danni alle macchine fotografiche. Molleggio come posso gli obbettivi, tenendoli sospesi fra le braccia, e controllo, con la coda dell'occhio, la borsa delle pellicole esposte e di "pronto impiego". Non so più dove metterla : il sole ha ormai scaldato tutti i sedili, e il fondo dell'auto, teoricamente all'ombra, è quasi rovente per l'atrito. Il posto meno caldo è al centro, 20 cm circa sotto il tetto, e lì, faticosamente, aggancio la borsa, con la sadica soddisfazione di vederla sbattere sulla testa del mio "driver" ogni volta che esagera o prende male la strada. Il poveretto è la prima volta che guida da queste parti : rimpiange da due giorni gli "avventurosi" turisti che s'accontentano delle abbeverate d'Etosha, e teme di perdere il contatto con l'auto della nostra guida, John Lavranos, botanico esploratore, collaboratore del famoso Missouri Botanical Garden di Saint Louis. "Due jeeps con quattro ruote motrici e un buon autista", mi aveva chiesto subito per telex, come gli avevo prospettatto un reportage sulla Welwitschia. Anche se il deserto della Namibia è appena il 5% del Sahara, ogni anno miete le sue vittime. Le ruote slittano e s'insabbiano, i motori fondono, ed entrarvi con un sol mezzo è pura follia. La nostra pista non è nemmeno segnata sulle carte, e se non fosse per la nuvola bianca di polvere dell'auto di John, spesso non sapremmo dove voltare. Finalmente si ferma per mostrarmi un'impressionante distesa di variopinti licheni, segno che lì si formano delle condense e che la vita, in qualche modo, è possibile. Da sotto un masso, spunta una piccola pianta, simile a un cactus. Cresce approfittando di un paio d'ore d'ombra e della rugiada che scivola lungo la roccia. "In genere", mi spiega, "si definisce deserto un luogo dove l'evaporazione potenziale è il doppio delle precipitazioni medie. Qui cadono al massimo 20 mm all'anno, la sabbia supera i 70° C, l'aria i 40° C, e il rapporto sarebbe di 1 a 200 con nessuna possibilità di vita. Ma al mattino presto e alla sera, dal mare giungono spesso le fitte nebbie che si formano, lungo la costa, per effetto della corrente fredda del Benguela, e si è calcolato che 100 giorni di nebbia equivalgono ad almeno 50 mm di pioggia. Per sopravvivere nei deserti le piante usano 3 strategie : immagazzinano l'acqua nei grandi vacuoli delle cellule, come questa succulenta, riducono la dispersione di liquidi con foglie caduche, minuscole o trasformate in spine, o evitano la stagione secca con una crescita lampo, da seme a seme, concentrata nel breve periodo in cui piove. La Welwitschia mirabilis, una perenne con due enormi foglie non caduche, esce completamente da questi schemi, perchè non è una pianta del deserto, ma l'incredibile adattamento a un clima arido di un'albero della foresta". Lo guardo con aria perplessa. "Dalle rocce", continua, "si ricava con precisione l'età del Namib Desert, 60 milioni di anni al massimo, e la Welwitschia appartiene a un gruppo di piante molto più antiche, le gimnosperme, che hanno avuto la loro massima diffusione 135-205 milioni di anni fa, quando qui cresceva lussureggiante una foresta pluviale". Sembra incredibile pensarlo, fra nuvole di sabbia e rocce sgretolate dal sole, ma in sostanza stiamo cercando gli ultimi alberi d'una foresta preistorica. Improvvisamente ne troviamo uno, poi un'altro, un'altro ancora, e finalmente un'esemplare enorme, con oltre 4 m di diametro. "Avrà quasi 2000 anni", commenta John, mentre penso emozionato a Friedrich Martin Joseph Welwitsch, il medico e naturalista austriaco che scoprì la Welwitschia, vicino a Cabo Negro in Angola, il 3 settembre del 1859. Cadde in ginocchio, sbigottito, sul terreno ardente, credendo di sognare. Charles Darvin la definì poi "l'ornitorinco del regno vegetale", e capisco in un attimo come la mancanza d'attrattive estetiche sia, per un botanico, irrilevante e l'appellativo "mirabilis" più che giustificato. "Cresce in stazioni discontinue", continua John, "là dove penetrano le nebbie, fra 25 e 120 km dalla costa, lungo una striscia di circa 1000 km, che va dal Kuiseb River, in Namibia, a Moçamedes, in Angola". Ci chiniamo sul groviglio di foglie, bruciacchiate all'apice, che si intrecciano fra loro come i serpenti sul capo della mitica Medusa. In realtà sono solo due. Crescono senza sosta, 10-20 cm all'anno, come capelli da un tronco acefalo. Potrebbero teoricamente raggiungere il metro e mezzo di larghezza e una lunghezza indefinita, ma nel loro continuo movimento le punte toccano il suolo, bruciano, si sfilacciano e col tempo le foglie si spezzano in tante strisce, lungo le nervature parallele. "E' l'unico caso", mi spiega, "di foglie perenni con accrescimento secondario. Un tessuto meristematico produce di continuo nuove cellule e nella sua lunga vita questa pianta avrà già fabbricato almeno 1000 m2 di foglie, un'immaginaria pista sportiva verde lunga 400 m e larga 3". Le tocco : sono dure, coriacee, mancano del rivestimento ceroso tipico di molte piante del deserto ed offrono al sole una superficie enorme, come se la pianta abbondasse d'acqua. "Avranno pochissimi stomi", commento, pensando alle perdite legate alla fotosintesi nel deserto. "Al contrario, ne contano oltre 250 per mm2, su entrambi i lati, più della maggior parte delle piante. Un ricordo, forse, della vita "alla grande" trascorsa, milioni d'anni fa, nelle foreste pluviali". "D'accordo, ma oggi ? " "Più le "bocche" sono numerose", mi spiega, "meglio assorbono le rugiade del mattino. Poi, durante il giorno, quando l'aria diventa calda e secca, spesso si chiudono e la Welwitschia adotta un particolare metabolismo, il CAM ( Crassulacean Acid Metabolism ), scoperto per la prima volta in un gruppo di piante grasse, le Crassulaceae. Apre gli stomi solo di notte o all'alba, quando fa fresco e l'anidride carbonica può entrare senza che il vento e il caldo si portino via troppa acqua, fissa provvisoriamente il CO2 in acidi organici e lo trasforma più tardi, col sole, in zuccheri ed amidi". Un metabolismo sorprendentemente evoluto in una specie, per molti versi preistorica. "Da un punto di vista sistematico", continua John,"la Welwitschia mirabilis è una gimnosperma, una pianta cioè a "seme nudo", parente delle cicadacee ( piante simili a piccole palme coltivate anche da noi in riviera ), del ginkgo e delle ben note conifere. Alla loro comparsa, le felci avevano già inventato il sistema vascolare, delle cellule per trasportare l'acqua dal suolo alle foglie, ma la riproduzione era ancora affidata all'umidità della foresta e alle spore. Le gimnosperme furono le prime a inventare il seme, una sorta di "piantina in scatola" con riserve nutritive e molte più possibilità di successo di un'organismo unicellulare come una spora. Forse, agli inizi, i semi nascevano sotto le foglie, ma in seguito queste si trasformarono in scaglie, che le gimnosperme sistemarono abilmente, una sull'altra, in strutture a forma di pigna. Poi vennero le piante da fiore, le angiosperme, che per proteggere e diffondere meglio i semi, inventarono l'ovario e il frutto. La Welwitschia, per la sistematica ancora una gimnosperma, segna il punto di passaggio fra questi due gruppi di piante". Mi mostra i microscopici fiori maschili ( come nelle cicadacee e in molte specie primitive i sessi sono separati : le piante, dette dioiche, presentano cioè solo organi maschili o femminili ) : spuntano da scaglie di piccole "pigne", portati da corti peduncoli. "Hanno già un rudimentale perianzio", mi spiega, costituito da 2 brattee interne ( futuri petali ) e 2 esterne ( futuri sepali ) che proteggono 6 antere ed una specie di pistillo, che conduce a un'ovario sterile. Un vero fiore, quindi, anche se solo abbozzato. E' impossibile dire se fu il primo, certo le altre piante che ci provarono, oggi sono estinte e la Welwitschia è l'unico testimone vivente dello storico passaggio". Alla base dei peduncoli, là dove sbucano dalle scaglie, notiamo delle strane goccioline, di cui nessuno ha mai parlato nei libri. Forse acqua o nettare per attirare gli insetti. "Anche se per certi autori l'impollinazione è affidata al vento", continua John, "in pratica se ne occupa un insetto, il Probergrothius sexpunctatus, che vive quasi in simbiosi con la Welwitschia. Passa gran parte della sua vita succhiando i coni femminili, e favorendone l'infezione da parte di funghi microscopici, contribuisce a far si che sui 10.000-20.000 semi teorici per pianta, se ne salvino solo 20-200 all'anno". "Ma come ?" lo interrompo incuriosito, "dov'è il vantaggio ?". "Benchè alati", mi spiega, "i semi della Welwitschia in genere non vanno lontano : urtano nel groviglio di foglie e cadono vicino al tronco. Ma nei deserti, dove le risorse sono scarse, le giovani piante non possono permettersi d'entrare in competizione con la madre : devono crescere, cioè, almeno a una certa distanza. Per esser certi di non restare a metà sviluppo senz'acqua, i semi sono coperti da potenti inibitori germinativi ( per rimuoverli occorrono almeno 25 mm di pioggia, continua o concentrata in 2-3 giorni ) e il Probergrothius sexpunctatus, provocandone la morte e la caduta, fa si che questi si sciolgano quasi tutti alla base della pianta. In breve il terreno intorno è intriso di sostanze antigerminative, e la nascita di concorrenti impossibile". Di fatto le Welwitschia più vicine distano diversi metri, e sembra che anche le gigantesche radici, a forma di carota, immettano nel suolo sostanze tossiche. Profonde quanto la larghezza della pianta, hanno un'importante funzione di riserva, e assorbono, con spugnose ramificazioni laterali fra i 25 e i 75 cm di profondità, l'acqua che filtra nel sottosuolo. "L'impollinazione", continua John, "avviene fra novembre e marzo. Poi i coni femminili si gonfiano, le scaglie si sollevano, e i semi vengono dispersi dal vento. Ricchi in proteine e carboidrati, estremamente igroscopici, possono aspettare anche 3 anni, e quando le condizioni sono favorevoli germinano in 10-20 giorni. Sviluppano rapidamente una radice e due cotiledoni, capaci di fotosintesi, superati in grandezza, verso il 4° mese, dalle foglie definitive". Improvvisamente da una pianta sbuca un topolino : ci guarda stupito per un'attimo e rientra nel suo piccolo universo verde. Si nutre dei semi della Welwitschia ed è in pratica l'unica preda della vipera del deserto. Un insetto, un topolino, un serpente e un'albero, uniti da millenni in un delicato equilibrio, in quella che gli indigeni chiamano "la terra che non invecchia", il più antico deserto o forse, perchè no, la più antica "foresta" del mondo. Giuseppe Mazza http://www.photomazza.com/
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Fra i miei servizi è forse quello che ha avuto più successo SERVIZIO KOALA Il Koala esce dal marsupio e bacia la mamma .... Volete anche il testo ? Siamo in un bosco ... australiano ... Ciao. http://www.photomazza.com/
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Molto bella la distesa ... qui è troppo arido ...
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Viva le PRIMULE e le VIOLE. Ciao a tutti e complimenti per le belle foto. http://www.photomazza.com/
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Caro Marco, grazie per la precisazione ... alcuni botanici separono le Betulaceae dalle Corylaceae ... altri no. Io mi baso sullo ZANDER che non le separa. Ma tutto è in evoluzione e si vedrà ... Patty ... io avevo pensato subito allo stesso gruppo della miseria ... ma poi c'era scritto spontanea ... Ciao a tutti.
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Complimenti ... ma la sorpresa viene qui in fondo FIORITURA MOLTO INSOLITA scendete in basso in basso ... si vedono le " gemme in apertura " ... I primi piani fra qualche giorno ...