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Due tappe, qualche immagine euna manciata di righe


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Vivere la montagna è il bel titolo di questa sezione che amo e dalla quale haimé son troppo spesso lontano; vi sono volte tuttavia nelle quali mi è dato affacciarmi non solo per gioire di quanto voi raccontate ma per ricordare finalmente momenti e luoghi dei quali ho fatto parte.

Spazi e tempi legati da fili sottili di cui la memoria è la trama, ai quali mi accosto con entusiasmo e timore di amante inesperto.

Il percorso è fatica, ma di più è il ricordo.

Questa è oggi la pista sulla quale spargo sudore; è un sentiero variato, come s'addice ai monti, nel quale ho gioito e sofferto. Ho camminato fisicamente poco, quasi nulla; ma ho ascoltato, visto, sentito e respirato su monti carichi di significati e storie.

Grazie a Paola e insieme a Michele ed Alice abbiamo trascorso i giorni recenti, quello del mio cinquantatreesimo compleanno e dintorni, in luoghi per diversi motivi noti e belli.

Ora, qui, insieme a voi li ricordo.

 

Modificato da funghimundi
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Tappa 1

 

L'altipiano di Asiago, terra di vite dure e isolate delle quali Mario Rigoni Stern ha lungamente narrato, lo saliamo di sera dalla val d'Astico su per l'impressionante provinciale 78 del Piovan, opera d'ingegno e fatica d'altri tempi. Un cinghiale osserva la Yeti arrancare sotto la pioggia; dopo 17 tornanti, alcuni rubati alla parete di roccia, siamo in altopiano, comune di Rotzo, nel territorio dei sette comuni dove “non esistono castelli di nobili, non esistono ville di signori, né cattedrali di Vescovi, per il semplice fatto che la terra è del popolo e i suoi frutti sono di tutti come ad uso antico”.

Nella sera piovosa attraversiamo abitati all'apparenza deserti, poi saliamo e ci infiliamo nel bosco dove l'acqua cede il passo alla neve che ci accoglie al rifugio: davvero un bel “benvenuti”!

La luce del primo novembre si addice al periodo e la neve notturna è tornata acqua; pazienza.

Ad Asiago si va sotto una pioggerellina inesorabile. Nell'accogliente libreria centrale diamo tregua agli ombrelli e acquistiamo un paio di interessanti pubblicazioni. Poi sulle tracce del sergente rompo un'astinenza che durava da 35 anni e cioè dal mio 18° compleanno tempo dal quale mi sottrassi all'usanza familiare di visitar cimiteri.

Quello di Asiago pare degno dello spazio che lo circonda ed è in maggioranza la terra ad accogliere chi è andato avanti.

Nonostante qualche indicazione ricevuta, la tomba di Mario Rigoni Stern ci rimane ignota sebbene diversi omonimi totali o parziali ci abbiano illuso; pazienza, la sua normalità e riservatezza lo accompagnano ancora, paesano tra paesani, nella nuda terra sotto una croce di legno.

Piove forte quando usciamo su un altra traccia: l'omonima contrada dove viveva ai bordi del bosco. Li tutto è normalità. Le contrade Rigoni di sopra e di sotto son popolate di broli, alberi, orti, famiglie che danno il nome ai toponimi. Chiedo a un anziano, che ci accompagna e racconta brevemente il mondo di api, alberi, caccia e passeggiate del Mario.

Salutiamo con emozione la casa rosa dove vive Anna; senza avvicinarci troppo.

Si pranza al Termine, luogo “mancato” da alcuni di noi, dove cucina e ambiente ti fanno davvero contento di essere li. Dopo pranzo una timida luce accende a tratti l'alta valle d'Assa le cui acque raccolte dal passo Vezzena, scompaiono presto inghiottite dall'avida roccia carsica.

Nella breve salita verso malga Galmararetta un raggio di sole perfora la valle; ed è presto sera nell'umido bosco.

 

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Modificato da funghimundi
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Il giorno dopo finalmente un po' di luce accompagna il nostro attraversare l'altipiano da ovest verso est. Mentre ci spostiamo tra foreste e pascoli ci ripromettiamo di tornare per un tempo più lungo che ci consenta il viaggiare lento che ora ci neghiamo.

I boschi son finalmente vestiti di luce autunnale: che meraviglia!

Poiché siamo in alto ci affacciamo dove si scende, da secoli: la “calà del sasso”. Un'impresa immane che potrebbe figurare tra le meraviglie dell'umanità, almeno di quella operosa e perlopiù silente.

Quattromilaquattrocentoquarantaquattro gradini! Una via per scendere uomini e tronchi dall'alto dei boschi al basso dei mari.

Solo immaginare la sforzo di chi ha fatto quest'opera è fatica che richiede rispetto.

 

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Tappa 2

 

E' lungo, molto lungo, l'andare dall'altipiano alla diga maledetta che sbarra la strada al torrente che ha scavato nei millenni una gola profonda per gettarsi a valle: il Vajont.

Si risale il Brenta, si costeggia il Grappa, si buca la montagna per cambiare valle, il Cismon e poi finalmente il Piave, sacro alla Patria, da risalire fino a Longarone.

Da qui si vede la diga che, scavalcata dalla montagna d'acqua e di fango, ha retto l'urto immane: potenza di calcolo, ferro e cemento.

Per salire lassù, nella valle sospesa tra le montagne, sembra di andare altrove; la forra è di la, la devi aggirare da nord, prenderla larga per arrivare a sfiorare il mostro attraverso rocce umide e forate.

E' un percorso coerente con la pervicace dimenticanza dei fatti, dei motivi, dei drammi.

Lo dicevo all'inizio: ricordare è fatica, a volte addirittura pena. E allora è meglio, più facile, rimuovere. Prima tramite la sostituzione del paese nuovo al posto del paese vecchio, poi attraverso l'oblio di cose, case e genti abbandonate, infine con la trasformazione e cioè le ristrutturazioni grazie a denari che vengono da lontano, da un Europa mai parte di questa italica storia.

Ma andiamo per gradi.

Salii quassù la prima volta quasi 10 anni fa e la cosa alla quale non ero preparato, che il mio cervello rifiutava come impossibile, era, come ancora è, la “montagna” al posto del vuoto subito a monte della diga.

Il bosco pian piano si riprende il possesso della terra che scivolò quaggiù, una notte di ottobre di 49 anni fa.

 

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Casso ed Erto dimenticate, che vidi allora, non ci sono più; il bar K2 è ristrutturato, il parcheggio da basso frequentato e dotato di regolare parchimetro, la scritta sul muro dedicata ai coscritti del '63 (!) scomparsa. Diverse case del paese vecchio di Erto son ristrutturate, altre in corso di sistemazione. Penso che questo sia in assoluto positivo ma al tempo stesso mi chiedo se l'oblio colpevole durato decenni non poteva essere sostituito da un ricordo consapevole di cui le pietre e i legni delle vecchie case avrebbero potuto essere testimoni imperituri. Forse tra qualche anno avremo un 'bel paesino' di montagna nel quale case vacanze, b&b, e simili avranno definitivamente seppellito la tragedia di mezzo secolo fa. Son perplesso.

Forse il ricordo vagherà nel vento; lo stesso vento che oggi solleva i colorati tessuti che recano i nomi dei bimbi che non videro il giorno dopo l'onda.

 

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Il Vajont scende nella sua valle sconvolta, si infratta sotto la terra caduta dal Toc; laggiù, dove una volta gorgogliava l'acqua selvaggia oggi condensa l'alito del drago che inghiottì duemila vite, una sera di quasi cinquant'anni fa.

 

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Scendere dalla montagna è compimento di viaggio, è tornare a baita, è riflessione di andare ritmato.

 

E mentre in discesa dimentico lo sforzo del salire, il ricordo m'assale; e mi strugge di nostalgia e fatica.

 

Marco

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Ecco dov'eri finito !!! :biggrin:

 

 

Bel giro per chi ha una certa età . . . . . . :lmao: :rofl:

 

:friends:

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Il Vajont scende nella sua valle sconvolta, si infratta sotto la terra caduta dal Toc; laggiù, dove una volta gorgogliava l'acqua selvaggia oggi condensa l'alito del drago che inghiottì duemila vite, una sera di quasi cinquant'anni fa.

 

 

Scendere dalla montagna è compimento di viaggio, è tornare a baita, è riflessione di andare ritmato.

 

E mentre in discesa dimentico lo sforzo del salire, il ricordo m'assale; e mi strugge di nostalgia e fatica.

 

Marco

 

riflessione che non può non cogliere chi vive quelle montagne, segnate da due guerre, dalle fatiche di alpigiani e di Alpini,

e dal terribile disastro di Longarone, struggenti quelle bandierine che soffiano il nome di chi 50 anni fa in una notte

infausta è "andato avanti", struggente anche perchè quelle che hai immortalato in primo piano fanno riferimento

a due "fiori" recisi dall'acqua e dal fango quando non erano nemmeno schiusi.

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Non vorrei essere preso per irriverente nei confronti delle vicende dell'Altopiano e della tragedia del Vajont. :huh:

 

Volevo solo smorzare un pò il tono "serioso" di una vacanza :wink:

 

 

Anch'io ho "visitato" la zona della diga per la prima volta, solo una decina di anni fa e ne ho provato le tue stesse sensazioni !

 

ciao compà, non me ne volere . . . . . :innocent:

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Non vorrei essere preso per irriverente nei confronti delle vicende dell'Altopiano e della tragedia del Vajont. :huh:

 

Volevo solo smorzare un pò il tono "serioso" di una vacanza :wink:

 

 

Anch'io ho "visitato" la zona della diga per la prima volta, solo una decina di anni fa e ne ho provato le tue stesse sensazioni !

 

ciao compà, non me ne volere . . . . . :innocent:

 

ma quando mai ....

 

 

:friends:

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Marco, che dirti...

 

Ho assaporato ogni singola sillaba del tuo bellissimo e sensibilissimo raccontare.

 

Su tutto: quei pezzi di stoffa colorati.

 

Mi hai regalato una breve ma intensissima e struggente testimonianza d'una tragedia che conosco abbastanza bene per aver seguito diversi documentari sul tema.

 

Un abbraccio e grazie ancora.

 

:hug2:

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